Satiel
ci aveva salutato ieri sera con una forte manata sulle spalle: "ok,
ok, tomorrow at 7", un largo sorriso e saltellando se ne era
andato. Riguardo l’orologio, sono le 9,30 e lui ancora non c’è: non
sono agitata, penso semplicemente che sono in Africa e che qui il
concetto del tempo e di un appuntamento è diverso. Ieri sera fino a
mezzanotte sono rimasta a preparare i bagagli, non voglio caricare i
portatori di cose inutili né dimenticare qualcosa di essenziale Ecco,
arriva Satiel, allegro e sorridente. Il tempo è piovigginoso, umido; il
cielo chiuso e grigio. Ci mettiamo in marcia a mezzogiorno, dopo esserci
registrati al cancello d’entrata del Parco del Kilimanjaro. Siamo i
quattro inseparabili amici: Livio, Livietto, Valeriano ed io, Franca. |
Il giorno dopo, riposati e freschi, ci rimettiamo in marcia. Il paesaggio sembra fatato, pendono muschi e licheni dai rami gocciolanti, le foglie bagnate sono lucide e carnose, di ogni forma, grandi e piccole; qua e là appaiono i fiori. Sono immersa nel verde, mi lascio percorrere dalle sensazioni e penetrare dai profumi: amo questa fusione totale con gli elementi della natura, è scattato il mio meccanismo emotivo: so che vivrò per tutto il tempo dell’ascensione in questo stato di compenetrazione sensuale con la natura, con le vegetazione e i profumi, con gli scenari e i venti e i silenzi, con l’umidità e l’aridità e il freddo dei ghiacci, e le nuvole e i cieli stellati…La lussureggiante foresta lascia spazio alla brughiera: in mezzo a folte erbe crescono le eriche giganti, alte fino a tre metri, poi ancora tutto cambia, i cespugli si fanno bassi, alcuni hanno brillanti fiori gialli, altri fiori che sembrano carciofi ,quando sono chiusi e quando sono aperti sono bianchi, con tanti pistilli come aghi. La luce si diffonde più intensa, si dissolvono le nebbie e si intravedono squarci di sereno; infine il cielo si fa più azzurro e appaiono il Kilimanjaro innevato e il Mawenzi roccioso e violaceo. Siamo ormai in pieno sole, la temperatura è ottima , un leggero venticello ci evita di sudare: "jambo, jambo mama!" mi dicono i portatori, "pole, pole" (piano, piano). A 3720 mt, il villaggio di Horombo, simile al Mandara camp, è immerso nella landa fra lobelie e seneci. Queste piante sono caratteristiche delle alte quote, le foglie dei seneci giganti sembrano grossi cavoli e hanno la funzione di proteggere la pianta e il fragile germoglio, che cresce all’interno, dalle temperature sottozero. Le foglie secche non cadono, ma formano uno strato spesso, che isola il tronco e lo ripara dal freddo. Anche le lobelie rappresentano il miracolo dell’adattamento della specie all’ambiente: le corolle dei fiori, raccolti a spiga, secernono una piccola quantità di acqua, che gela durante la notte, ma l’acqua sotto lo strato superficiale non gela mai e protegge la gemma delle foglie dal freddo. Decidiamo di fermarci a Horombo un giorno, per favorire l’acclimatazione del nostro corpo all’altitudine. |
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A sera nel cielo terso la Via Lattea sembra vicinissima e ancora più
splendente; lontano nella piana brillano le luci del villaggio di Moshi.
Il Colle dei Venti è a 4300 mt.
sorpassiamo la falesia di colore chiaroscuro, detta Zebra Rock e
raggiungiamo le sella attraversando un paesaggio semi-desertico,
costellato di fiori gli Helichrysum argentei, le cui foglie sono di un
pallido verde-grigio. Ritornati al rifugio
conversiamo coi portatori e insieme mangiamo le tavolette energetiche e
il cioccolato portato dall’Italia, lasciando scorrere il tempo e
riposandoci. Il giorno successivo
raggiungiamo Kibo Hut; si attraversa una lunga landa desertica, il
paesaggio diventa lunare, il sentiero polveroso e sassoso: sono sassi
lavici, dalla forma corrugata e massi più grandi che ricordano le
antiche esplosioni del vulcano; l’aria è rarefatta, il sole diffonde
una luce abbagliante e il freddo è pungente. Livio
mi chiede di accompagnarlo lungo il sentiero un po’ più sù; ci
accoccoliamo in alto ad ammirare il Mawenzi e il cielo che si offusca e
si predispone ad accogliere il tramonto. A mezzanotte ci rimettiamo in marcia. Fuori dal rifugio mi coglie un brivido di freddo, siamo tutti imbacuccati, partiamo in silenzio, lentamente. Man mano che salgo sento il passo farsi pesante, il respiro affannoso, mi prende un senso di spossatezza e procedo a rilento, supero i 5000 mt e con la sola forza di volontà arrivo ad un posto riparato fra le rocce, la Hans Meyer Cave. Mi devo fermare, devo riprendere fiato, riposare un po’. Dico ai miei amici di andare oltre, la guida parte con loro. Non devo pensare alla nausea e alla stanchezza, guardo le stelle, sono sola, sperduta nel silenzio, solo il vento sibila; sono avvolta nel buio della montagna…cerco di muovere le mani e i piedi per scaldarmi. La guida tornerà indietro, nel frattempo io devo decidere se proseguire o no, devo essere in grado di valutare le mie possibilità e i miei limiti. Sono calma e serena, il riposo mi ha fatto bene e decido di ripartire. Ad ogni passo mi sento esausta. Il sole sta per sorgere, le luci iniziano a tingere l’orizzonte arcuato, sfumando il cielo della notte, i raggi mi scaldano un po’ e quindi respiro meglio, il mio incedere, pur lento, si fa più regolare. Poi la luce inonda il mare delle nuvole, riesco a vedere il percorso fatto, in basso, laggiù, il rifugio Kibo, sbiancato di brina o di neve. Sposto lo sguardo verso l’alto, vedo il bordo alto della montagna che si staglia contro il cielo e Livio che mi aspetta, mi ha vista salire e si è fermato: ora so che lo raggiungerò. Livio mi ha accompagnata sui sentieri e sulle cime più belle, quelle che da sola non avrei mai saputo raggiungere; ritrovo la sicurezza, il suo abbraccio e le parole degli amici. Quando arrivo a Gilman’s Point, sul bordo dell’immenso cratere di ghiaccio scintillante, nel cielo corrono grossi nuvoloni ma a tratti appare un magnifico cielo blu. La mia felicità è immensa: sono a 5685 mt, il vento gelido sferza sul mio viso e i miei occhi lacrimano anche per l’emozione. Lascio Livio, che prosegue per Uhuru Peak, la cima vera, che si raggiunge risalendo il bordo del cono vulcanico, tra i ghiacci perenni. Sono circa 200 mt, ma chiederei troppo a me stessa se volessi andare ancora oltre e impedirei a lui di riuscire nell’impresa. Comincio a ridiscendere, piano; a sera raggiungiamo Horombo, stanchissimi e affamati; attorno alla tavola, prima del sonno intoniamo le note del nostro canto occitano"Aquelos mountagnos".., si uniscono canti in lingue diverse, vorrei fossero inni alla gioia per tutti gli uomini. Testo di Franca Formento - Foto di Livio Parola |